Version originale de Giulio Angioni
Voir la traduction d'Hannah Langlais :
Nouvelle vague?
1Si sa che le operazioni di ricognizione o mappatura od ordinamento del mare magnum delle scritture letterarie, come per le tante cose del mondo, si fanno sempre e bisogna farle, ma cum grano salis, per dare un qualche ordine a ciò che accade, trovando coerenze in forme di apparentamento, di cause, di risultati, o anche di desideri e di progetti.
2Non è il caso di insistere sulla necessità e sulla precarietà di queste operazioni di individuazione spazio-socio-temporale. Spesso difficili, a volte azzardate, comunque approssimative e mai esaustive. Qui c’è in più la difficoltà di esserne parte, sia perché sono stato inserito nella partita, sia perché anch’io, per comodità e a cose fatte, uso le denominazioni correnti per indicare sia le novità, sia le continuità dell’attività letteraria in Sardegna tra Novecento e Duemila. Nuova onda, si dice. Niente è più ripetitivo delle onde, ma le onde sono anche sempre nuove, si sa. Per me le novità più evidenti sono la quantità e la qualità della produzione letteraria sarda degli ultimi decenni. Anche solo la quantità, e mi pare anche importante che si tratti, per la prima volta in maniera che conta, di opere prodotte anche da un’editoria sarda nuova, che riesce a distribuire e a vendere sia in Sardegna e in ltalia e sia fuori con traduzioni, lanciando scrittori che prima potevano aspettare lettori solo pubblicando in continente. Una novità è anche che la nouvelle vague usa variamente il sardo nel racconto letterario, e che di essa fa parte una inedita produzione di prosa in sardo, che si affianca a una continuità della poesia in sardo.
3Sono considerato uno dei padri di questa nouvelle vague, insieme con Salvatore Mannuzzu e Sergio Atzeni, come ormai è uso indicare. Forse mi sono dato molto da fare perché ciò accadesse.
4Devo rispondere spesso alla domanda se e quanto la mia narrativa sia collegata al mio mestiere di antropologo. Di solito dico che i due tipi di attività non potrebbero non essere collegati. Tra il serio e il faceto ho detto spesso che oggi in Italia nessuno può vivere di scrittura letteraria, a meno che non scriva per i moloch televisivi. Ma poi concedo che mi pare ci sia un rapporto stretto tra il mio mestiere di saggista e il mio hobby di narratore. E che, entrando nei particolari di un racconto, potrei trovare nessi più o meno immediati tra i due modi di scrivere, saggistico e narrativo. Più obiettivamente posso dire che ciò è una coincidenza almeno tematica nel mio studiare e nel mio raccontare il mutamento dei modi di vivere in Sardegna e non solo nei decenni del secondo Novecento. Ci troverei anche certe altre sensibilità di antropologo, messe a frutto diversamente.
5Con un pubblico adatto, ne capto la benevolenza dicendo che per me cercare di diventare antropologo e cercare di diventare scrittore sono anche una conseguenza del bisogno di fare i conti con le mie origini, quindi con la mia terra e la mia gente, e dunque in fondo con me stesso. Ma anche questo forse è troppo ovvio, troppo detto, troppo indossato. E sbandierato senza pudicizia. Potrei forse dirlo meglio precisando che sia da antropologo sia da scrittore cerco di fare i conti col me stesso collettivo di sardo italiano europeo globale, mediante la ricerca e la riflessione, dedicandomi in particolare al mondo sardo da cui provengo, in questi due modi di cui sono un poco esperto: studiando con gli strumenti dell’antropologia, descrivendo e trasfigurando alcuni aspetti con lo strumento del racconto, inventando un mondo perché, paradossalmente, sia più veritiero. Nessuno sa meglio di uno scrittore sensato che la vita ha solo il senso che riusciamo a darle fin dalla prima volta che diciamo: “Mamma, raccontami una storia”.
6Mi è capitato di progettare e di curare il volume Cartas de Logu, dove più di quaranta scrittori sardi parlano della loro identità di scrittori sardi. E lì tutti fanno i conti più o meno esplicitamente anche col problema se esista davvero un’identità sarda e quanto sia vero che parte del successo di questi scrittori sia dovuto al fatto di essere sardi.
7Le operazioni di identificazione, sentire chi siamo e dove siamo e dove andiamo e così via, per me, anche come antropologo, sono universalmente umane e vitalmente indispensabili. Ma come antropologo sottolineerei anche qui che queste operazioni sono in un flusso continuo più o meno rapido, sia per dinamismo interno e sia per influenze esterne. Specialmente oggi che la diversità del mondo si riproduce in ogni luogo, comprese le isole più appartate. Un guaio è che spesso ogni identità pretende unicità impareggiabili e continuità eterne. E questa identità forse in letteratura non è buona in tutte le salse e tanto meno come piatto forte. Ma con precauzione. Le identità e gli orgogli etnici non sono sempre positivi. ll Novecento ha seminato morti a milioni nel nome di questo o di quell’altro orgoglio etnico.
8Come ho già scritto altrove, a me pare che la forza nuova della letteratura sarda di oggi sia sapere usare le cipolle identitarie come condimento, spezia, spizzico, e non più tanto come piatto forte se non proprio unico. Non ci insisto, anche perché mi pare abbia qualche ragione chi dice che niente va prescritto o proibito in ciò che diciamo arte. Tutto può essere elaborato e apprezzato esteticamente, anche le cipolle identitarie come piatto unico. E poi sì, il successo di certi scrittori, e più o meno di tutta la produzione della nouvelle vague letteraria sarda, dipende anche dall’essere sardi. Già la Deledda, come cercherò di dire meglio più in là, ha saputo sfruttare molto bene la sua vena autoesotizzante. E i best sellers sardi di oggi sono sempre autoesotici, anche quando non si ricorre a mescidanze linguistiche tra italiano e sardo.
9Io ho scritto e scrivo in italiano e in sardo. Ma mi pare utile ribadire che non ritengo di fare peccati di lesa sardità se scrivo in italiano, così come non ritengo di essere solo per questo migliore o più sardo quando scrivo in sardo. E che è meglio non avere che fare con chi prescrive in quale lingua deve scrivere un sardo. Tuttavia i problemi di una possibile politica linguistica in Sardegna m’interessano molto anche come scrittore. Ci sono modi molto diversi di usare il sardo in letteratura. E ci sono anche gli estremisti, che sostengono che uno scrittore sardo, se vuole essere sardo, deve scrivere in sardo. C’è anche chi sostiene che si deve scrivere in sardo nella forma che si dice stabilita per legge in limba sarda comuna. Sono solo esempi di un modo di occuparsi del problema linguistico della Sardegna nascondendo il fatto capitale che ormai, probabilmente per la prima volta nella nostra storia, tutti i sardi usano bene una lingua comune, l’italiano, spesso accusato di molte nefandezze in Sardegna. Ma ci sono quelli come Sergio Atzeni, che prima ancora di Camilleri scrive Bellas mariposas in un bel miscuglio linguistico alla Pasolini o anche alla Gadda. Salvatore Tola, che ha scritto una ponderosa Letteratura in lingua sarda (2006), pone il mio racconto Arrichetteddu, contenuto in A Fogu aintru (1978), come la prima prosa in sardo della nostra contemporaneità. E in puri termini di tempo, è così. Dico questo per sottolineare che non ho evitato il problema dello scrivere in sardo, se problema è. E ho pubblicato e scritto molto in italiano regionale sardo, tra i primi in modo consapevole e programmatico. Mi piacciono molto, però, anche cose scritte, per esempio, da Salvatore Mannuzzu, nel suo italiano medio senza traccia di sardo, così come mi piace Benvenuto Lobina che scrive in campidanese, o altri che scrivono in altre varianti sarde.
10Non capisco quelli che scrivono in sardo come compiendo una specie di atto di religione, salvifico. Non mi trovo d’accordo con quelli che impongono il sardo come atto politico- morale-estetico e così via. Un obbligo insomma. Il fenomeno della scrittura in sardo è, comunque, nuovo e interessante. Finora ne ho sottolineato aspetti negativi, dimenticando quasi i risultati positivi, come quelli di Benvenuto Lobina, che ha scritto il suo romanzo Po cantu Biddanoa in una versione sarda e in una in italiano, dove l’una versione non è una traduzione a servizio dell’altra, ma sono due modi usati dallo stesso autore per raccontare più o meno le stesse cose. Questo credo che sia un fenomeno abbastanza raro, ma molto interessante, anche se per apprezzarlo bisogna avere una competenza totale di entrambe le lingue, e per valutare come uno scrittore possa potenzialmente produrre un testo con due facce linguistiche, due testi che sono anche lo stesso testo. Ne risulta una comunicazione più ampia, per chi può leggere entrambe le lingue. Il lettore ideale è quindi quello che legge entrambe senza difficoltà. Insisto sulla novità della cosa in Sardegna, anche perché, se si vuole, ciò si può considerare come prodotto di una situazione linguistica che oggi nel mondo si definisce come post-coloniale.
11Queste novità possono contribuire a spiegare come mai le statistiche ci dicano che in Sardegna i lettori di letteratura (di saggistica e della stampa d’informazione) sono in aumento e sono superiori alla media italiana. Credo, o spero, che anche la nuova letteratura sarda vi abbia qualche funzione positiva. E così pure i festival letterari. Io sono tra i fondatori di quello di Gavoi. E ne sono contento. Ma considerando che il ruolo della lettura rimane importante in tutto il mondo, non esagererei nel considerarlo in assoluto positivo. Oggi ci sono (come in passato, per esempio, l’oralità) altri modi vecchi e nuovissimi di raccontare il mondo e la vita in tutti i loro aspetti. Cinema, televisione e telematica hanno l’importanza che tutti sappiamo, nel bene e nel male. Ma anche i libri lo sono sempre nel bene e nel male.
12Stando più a ridosso del tema di questo convegno, mi sento di considerare nuovo quanto è successo in Sardegna anche per la letteratura nel secondo Novecento. Lo chiamano il secolo breve, ma il Novecento, per chi l’ha vissuto in luoghi come la Sardegna, è lungo e largo ed è mondiale, non foss’altro che per le due guerre che si dicono mondiali. Ma anche per la letteratura, a prendere le misure da Grazia Deledda per arrivare a Salvatore Satta, due nuoresi mondiali tanto quanto i due campidanesi mondiali Giuseppe Dessì ed Emilio Lussu, mentre il millennio si è chiuso sul nuovo con una quantità di scrittori sardi di rinomanza anche internazionale, da Giorgio Todde a Salvatore Niffoi, da Milena Agus a Marcello Fois, da Salvatore Mannuzzu a Michela Murgia e a molti altri di non meno valore e fortuna. Nessuno pare più negare l’importanza di questa nouvelle vague letteraria sarda.
13Qualcuno fa distinzioni drastiche, soprattutto nel nome e nel ricordo di Sergio Atzeni. Se fossi costretto a porre un terminus a quo per inquadrare nel tempo quella che anche a me, moderatamente, pare una novità novecentesca per lo meno quantitativa, anche solo per quanto riguarda l’importanza e la popolarità della narrativa sarda in Sardegna e fuori, forse indicherei il 1975, con Padre padrone di Gavino Ledda, che appare terminare il vecchio atteggiamento degli scrittori sardi che offrono l’esotico che ci si aspetta da un sardo che racconta la Sardegna. Probabilmente non è una novità solo quantitativa, rispetto al passato fino a quel momento finale, nonostante che la letteratura, più precisamente la narrativa, in Italia e quindi anche in Sardegna, non sia mai stata davvero popolare. Anche in Sardegna c’era e c’è una tradizione poetica colta, in sardo e in altre lingue, con autori notevoli come Benvenuto Lobina e Antoninu Mura Ena. Nel secondo Novecento comunque è la prosa in italiano, è la narrativa la forma letteraria colta più notevole, mentre si inaugura una produzione di narrativa in sardo negli anni a cavallo dei due secoli o millenni. Nel Novecento è accaduto in Sardegna ciò che altrove in Europa e nel mondo europeizzato accadeva o era già accaduto da circa un secolo e mezzo a questa parte. Comunque, né in Sardegna né altrove mancano i poeti, ma qui come altrove sono più numerosi i narratori che acquisiscono lettori e rinomanza. Insomma, anche in Sardegna il romanzo è diventato la forma d’arte della parola più importante, in ambito colto e semicolto o popolare, per quanto può valere questa distinzione.
14Anche in Sardegna la questione delle lingue ha oscurato altri problemi e altri dilemmi del nostro tempo e del nostro futuro, facendo talvolta trascurare polemiche forse più necessarie, mentre proprio l’ultimo quarto del secolo scorso produceva la stagione forse più fertile della letteratura sarda in italiano, con nomi che ciascuno può fare, di morti, di vecchi e di giovani narratori e anche di poeti in sardo, in italiano e in duas limbas. Com’è giusto, anche in Sardegna si ripropone l’ovvia ma allarmata questione di che utilità sia oggi l’esercizio di mestieri e competenze come quelle che diciamo culturali, intellettuali, dello spirito, della memoria accumulata in biblioteche e musei e simili luoghi di conservazione e fruizione della memoria oggettivata in documenti. Ed ecco interpellati i variegati mondi della scuola, dell’editoria, della politica culturale, dell’informazione, delle arti, e messi davanti alle proprie responsabilità di contribuire a capire presente e passato e a progettare il futuro. Chi semplifica si chiede di che utilità sia oggi un grecista, un musicista di musica colta, un archeologo, un urbanista, un cineasta, un assessore alla cultura, un filologo romanzo, uno scrittore. Se abbiamo risposte da almeno duemila e cinquecento anni, in queste terre mediterranee, abbiamo pure il nuovo e concitato bisogno di senso e di prospettiva. Così nel nuovo millennio la letteratura sarda sembra aiutare a riprenderci dalla vertigine di essere sopravvissuti al Novecento e al millennio: col ricordo pietoso, attento, conscio della opacità del mondo, della varietà e pluralità dei modi di vita e delle cose, magari smorzando l’enfasi con cui fino a poco tempo prima si guardava alle invarianze e ai destini collettivi e si parlava, anche letterariamente, di autonomia e di riscatto, di progresso e di mutevolezza perfettibile dell’uomo, in una Sardegna cambiata in pochi anni come forse non era cambiata nei millenni, nel secolo più tragico ma anche più prospero o meno misero della nostra storia. Anche in Sardegna forse nessun altro mezzo meglio della letteratura ha espresso le specificità e le permanenze, ciò che ci distingue e ciò che ci assimila al resto del mondo. Alla letteratura anche sarda resta questo compito, anche per contribuire a premunirci dai guasti del mutamento, che nel Novecento e ancora oggi sono guasti del paesaggio in ogni senso, dell’emigrazione e della deruralizzazione con o senza industrializzazione e turismo sole e mare. Questo è un compito, implicito o esplicito, che si può vedere svolto in modi diversi dalla maggior parte degli scrittori sardi di oggi, sebbene con diversa fortuna di pubblico e di critica.
15Rispetto ai più fortunati del momento, c’è da notare l’importanza del loro essere diversi, anche per comprendere ragioni della loro fortuna di pubblico. Se si può capire il giudizio perplesso o francamente negativo su singole opere e su singoli autori, non ha senso il fastidio per il successo di pubblico e di critica degli scrittori sardi degli ultimi decenni, che a volte, banalmente, pare che tutto il mondo ci invidi. La Sardegna di oggi è anche il successo letterario di molti, più o, meno innovatori oppure ben ancorati alla solida roccia dei Deledda, dei Dessì, dei Satta, dei Lussu. Forse ancora specialmente della Deledda.
Autoesotismo?
16Alberto Mario Cirese ha scritto di “rappresentatività sarda” della narrativa deleddiana. Ci sarebbe dunque una Sardegna che la Deledda presentava da Roma al resto d’Italia e del mondo, adattata a quelli che lei sapeva e supponeva fossero le aspettative e i gradimenti dei non sardi. E quali mai potevano essere i punti di riferimento, le aspirazioni e i risentimenti che, per quanto incerti, spingevano una signorina sarda di fine Ottocento a fare della Barbagia il terreno in cui mettere a coltura le sue smisurate e precoci aspirazioni alla gloria letteraria? Ci sono precedenti numerosi che aiutano a comprendere. Ma se la giovane e poi matura Grazia Deledda si è “inventata” una sua Sardegna letteraria, l’operazione, legittima e forse indispensabile di ogni “invenzione” narrativa, le è riuscita al meglio.
17Che a lei la cosa sia riuscita così tanto è uno dei motivi che la rendono grande, se non altro per l’orgoglio e la tenacia, che acuiscono una simpatia che si estende all’intera sua opera. Così bene le è riuscita la costruzione di una sua Sardegna soprattutto per i non sardi, che ancor oggi chi narra di Sardegna deve in qualche modo fare i conti con lei, e forse non può andare molto in là senza seguire almeno in parte le sue orme, o cancellarle lasciandone evidenza, altrimenti non sarebbe preso in parola né dai conterranei né dal resto del mondo. Il suo è stato un tentativo riuscito e vincente di mediazione tra mondo sardo e cultura europea. E che altro poteva fare, del resto, posto anche che le sue aspirazioni erano quelle fortissime che poi l’hanno portata appunto agli allori mondiali del Nobel?
18Allora è utile proporsi ancora di capire meglio perché, come e quale Sardegna le sia riuscito di rappresentare in sintonia con le aspettative della cultura italiana ed europea (e oltre) a cui ha inteso rivolgersi. Quel tanto di fastidio e di rigetto che almeno certuni provano (senza esagerare, naturalmente, perché bisogna ribadire che pagine godibili ce ne sono per chiunque nei romanzi sardi deleddiani) deriva da una importante e fondante quota di estraneità di questa Sardegna letteraria ad usum Delphini, suggestiva, tanto spesso esotica, arcaica, biblica, orientale, senza tempo, e da una scrittura che vuole stabilire un cordone ombelicale col sublime dei primordi. Forse è anche questo che a volte respinge, e non quel poco o tanto di tono da romanzo d’appendice che resta anche nella Deledda più matura, con quelle passioni umane elementari smisurate e fatali proiettate in dimensioni astoriche, nonostante gli intenti realistici su uno sfondo sardo che a un sardo, o per lo meno a quelli come me, meno toccati dalla Grazia, risulta subito per quello che è: un espediente (legittimo, non solo perché non pochi grandi intenditori lo giudicano felice) per dare maggiore suggestione ai temi ricorrenti della fatalità, del destino, dell’ineluttabile, del senso di colpa, così spesso legato alla centralità di una passione amorosa tragica, specialmente perché gli amanti sono di condizione sociale diversa. I temi della narrativa di sempre, comprese le nostre odierne telenovelas, trattati dalla Deledda in modo da creare atmosfere suggestive appunto perché non mai portate a un livello di chiarezza intellettuale (il giudizio è di D. H. Lawrence, nella prefazione all’edizione americana de La madre).
19È possibile dunque che certe reazioni di fastidio derivino anche dalla difficoltà di apprezzare la forza ambigua di queste atmosfere caliginose o torbide in ambiente sardo, tanto che la sua narrativa può apparire pretesto, e la sua Sardegna può apparire a volte improbabile, pur restando, in genere, di grande precisione etnografica. Ma anche così la Deledda resta affar nostro di sardi almeno quanto di quelli ai quali ha inteso rivolgersi.
20E la fortuna di pubblico e di critica della letteratura fatta dai sardi dipende ancora più o meno dalla capacità di “dir di Sardigna” secondo aspettative esterne, comprese quelle più scontate e di maniera, tanto che può parere che agli scrittori sardi ancora oggi non resti da fare altro da quel che alla Deledda è riuscito di fare finora meglio di tutti, se non avessimo avuto nel frattempo scrittori come il suo conterraneo Salvatore Satta, Emilio Lussu, Giuseppe Dessì.
21L’autobiografismo nelle narrazioni deleddiane è del resto un tratto piuttosto scontato, anche in quanto tratto elementare di ogni narrativa d’autore, tanto che rimane spesso non abbastanza tenuto in considerazione, nemmeno quando dell’autobiografismo narrativo della Deledda è parte, come spesso nei suoi romanzi maturi, il suo essere sarda (e magari nuorese), quando cioè il suo indubbio autobiografismo si allarga a una sorta di sardografia, funzionale all’intreccio e alla psicologia dei personaggi: cosa che poi contribuirà alla fortuna internazionale di pubblico e di critica della Deledda in quanto testimonial dei sardi e della Sardegna, e quindi rappresentativa anche di luoghi e di tipi umani più o meno assimilabili all’isola e agli isolani, se non anche del tempo finale otto novecentesco del mondo agropastorale delle campagne e delle montagne europee, e oltre. Tanto che può dirsi che ancora oggi l’immagine dei sardi e della Sardegna nel mondo sia debitrice almeno in parte all’immagine realistica e mitica che la Deledda ha diffuso della Sardegna nel mondo. E con la conseguenza che ancora oggi le fortune letterarie degli scrittori sardi si progettino e si commisurino anche sulla base di un’aderenza all’immagine deleddiana della sua isola e della personalità di base che dei sardi ha costruito e diffuso, e magari degli isolani in genere; o che comunque non si prescinda quasi mai da quell’immagine, eventualmente per prenderne le distanze o per farci in qualche modo i conti, quando si hanno ancora oggi propositi più o meno importanti di rappresentazione dei sardi e della Sardegna, magari con intenti di genuinità e autenticità.
22In proposito mi capita di citare spesso Alberto M. Cirese che scrive che,
23vista la forte capacità di persuasione che la Deledda ha saputo conferire alla sua immagine dell’isola, non mi pare affatto che sia uno sminuire la scrittrice se al dibattito sulle sue qualità letterarie e sentimentali si sostituisce o almeno si affianca quello sul suo ruolo politico-culturale: se si esamina il tipo di operazione che la scrittrice ha condotto in relazione ad una sua precisa situazione non soltanto “letteraria”, e cioè specificamente come intellettuale sarda alle prese con il problema di stabilire il contatto e la presenza culturale dell’isola entro il quadro nazionale postunitario, a partire da una distanza, da una estraneità e da una alterità che erano enormemente più accentuate che non per qualsiasi altra situazione regionale italiana, Sicilia compresa1.
24E siccome rappresentatività e alterità valevano altrettanto se non di più in ambito europeo, e più latamente almeno nell’ambito del mondo occidentale dove la Deledda ha ampliato il suo pubblico, la presenza culturale dell’isola nel mondo attraverso la sua narrativa era certamente una sua più o meno esplicita e programmatica consapevolezza. Consapevolezza che deve essere anche cresciuta di fronte al flop di tutti i suoi romanzi non sardi, come nel caso di romanzi come Nel deserto o di Il paese del vento e più tardi nel caso di Annalena Bilsini e degli altri romanzi continentali: tanto che nonostante la sua insistenza sui romanzi non sardi Grazia Deledda ha infine prodotto l’autobiografismo sardo più genuino e più esplicito in Cosima (da cui poi è stato spesso visto nascere e crescere il potente autobiografismo nuorese del suo concittadino Salvatore Satta de Il giorno del giudizio). Una tale consapevolezza, che tenta forse una sorta di via di fuga e di sfida appunto nei tardi romanzi continentali post-Nobel, già nella stessa Deledda serviva a misurare con sufficiente certezza che il suo successo, specialmente di pubblico, era e sarebbe stato legato alla rappresentatività sarda della sua narrativa. E ben al di là di una sua adesione, critica o ingenua che fosse, ai modi delle coeve narrative regionalistiche italiane e no, che è tema troppo specialistico perché possa io riprenderlo orecchiando e di cui molti hanno già detto da subito, e per lo più per “accusarne” o per “assolverne” la Deledda.
25Questa coscienza o scelta o coazione anche solo al dover fare i conti con un’alterità come quella sarda da parte di uno scrittore sardo che usi l’isola almeno come quinta delle sue rappresentazioni, così come al meglio ha saputo fare Grazia Deledda con la sua narrativa più fortunata, sembra avere fin ora sempre avuto come conseguenza (a parte le eccezioni che confermano la regola, per altro non molto a lungo fortunate di pubblico e di critica a cominciare magari dal suo contemporaneo Salvatore Farina) che quasi tutte le narrazioni degli scrittori sardi si concentrino sulla Sardegna più che come luogo e ambiente dell’azione narrativa, che insomma un narratore sardo di solito non solo si appaesi anche come narratore nella sua isola ma che sempre e in qualche modo debba trattare comunque della Sardegna. Nereide Rudas si è spinta più in là di tutti quelli che hanno notato questa caratteristica della narrativa sarda (e della poesia e magari in genere delle attività e dei prodotti estetici in Sardegna), segnalando il tratto psicodinamico collettivo per cui in genere la narrativa sarda assume la Sardegna non solo e non tanto a luogo o ambientazione, ma che la assume come protagonista, che insomma è l’ambientazione, il luogo, la Sardegna, «che si costituisce primariamente come figura e si staglia su uno sfondo, piuttosto che rimanere come sfondo in cui si ambienta il romanzo». Nel volume L’Isola dei coralli la psicologa o psichiatra Nereide Rudas esplora quella che lei stessa chiama l’identità del popolo sardo con una sua lettura psicodinamica specialmente del romanzo sardo, attraverso le scritture di Antonio Gramsci, Grazia Deledda, Salvatore Satta, Emilio Lussu e Giuseppe Dessì, mostrando la relazione forte che lega lo scrittore sardo (e uno scultore come Francesco Ciusa, oltre che gli autori ottocenteschi della false Carte di Arborea) alla sua terra, quasi una relazione “diadica materna”.
26Grazia Deledda ha continuato a scrivere anche romanzi e racconti di argomento “non sardo”, e perfino atopici. La cui minore fortuna probabilmente ha rafforzato in lei la sua “sardità” letteraria, visto che è la scarsa rappresentatività sarda (più che l’indebolirsi della sua bravura senza la vena sarda) che sembra spiegarne la fortuna mancata, ponendole il problema, come ancora ai narratori sardi di oggi, di come fare i conti non tanto e non solo con la loro propria Sardegna, ma anche con quella Sardegna deleddiana, altra ed esotica, che il mondo si aspetta ancora spesso dalla narrativa made in Sardinia. Con i suoi romanzi “non sardi” Grazia Deledda ha pagato il prezzo di un insuccesso forse immeritato a quella forte, caratterizzante e programmatica rappresentatività sarda della sua narrativa, che forse alcuni autori sardi continuano ancora oggi a pagare, ponendo ancora più chiaramente il problema se sia peggio, o meglio, il successo ancora dovuto all’autoesotismo oppure l’insuccesso che la sua mancanza o superamento a volte pare toccare a certe narrazioni di sardi di oggi.
27I tempi sono parecchio e forse radicalmente mutati nell’isola e nel mondo. Eppure, in tempi di nuovi esili in migrazioni planetarie dalle grandi campagne alle grandi metropoli del mondo, non siamo più bisognosi, in modo tanto esclusivo ed escludente, di luoghi figurati intatti come quella Sardegna letteraria selvaggia ed esoticheggiante, che soprattutto Grazia Deledda contribuisce ancora a diffondere nel mondo, facendosi imitare a lungo nell’isola e, mi pare, anche fuori, se non altro sfruttando ancora oggi le attrattive di ciò che può essere utile chiamare autoesotismo, quando è proprio un aspetto costitutivo della mondializzazione una pressante richiesta globale di particolarità locali, quando cioè la globalizzazione sembra cercare scampo e senso nell’esotismo, e a volte lo fa molto male, anche in letteratura.
28Sono perciò pure gli scrittori di oggi, anche in Sardegna, che a volte si chiedono più chiaramente di altri quanto scampo ci sia in un’autoesotizzazione che, legittimamente fittizia, ha modi di adeguamento ai luoghi comuni ormai forse meno efficaci del cercare di mostrarsi come si sa che si è e si è stati da sardi nel mondo, che è già cosa vaga, provvisoria e problematica.
29Nell’isola della Deledda come in altri luoghi simili, spesso gli scrittori sentono ancora la spinta, se non l’obbligo, di fare i conti con la loro terra, trattando tematiche sarde anche perché ancora fortunate nell’isola e in continente; oppure si rifiutano di farli, anche rispetto allo sguardo autoesotico verso i propri luoghi, che tuttavia anche letterariamente non possono non essere e restare luoghi d’origine. E quindi miti d’oggi, molti e alternativi, che sembrano durare molto meno di un tempo, quando per secoli i sardi si sono visti forse anche di più con lo sguardo dell’altro, a cui hanno parlato di sé con le parole dell’altro.